Il poeta e il suo doppio


da «Lo Straniero», 144, giugno 2012

Intervista di Stella Sacchini


Qual è la necessità che ti spinge a tradurre? È una bella domanda. In effetti all’inizio, quando ho cominciato a scrivere, tradurre certi poeti era davvero una necessità. Così come imitarli. Credo fosse un modo per cercare di assimilarne le qualità, che sono decisamente migliori delle mie, ma potrei anche dire, più semplicemente, che sentivo il bisogno di vedere i loro versi nella mia lingua. Ora non sento più quell’urgenza perché col tempo si sono avvicinati, sono diventati più miei. Adesso traduco perché è parte del mestiere. Per un poeta è una cosa piuttosto naturale, quasi tutti quelli che sanno una lingua straniera lo fanno, e a volte anche quelli che non la sanno.

Quando hai fatto la tua prima traduzione vera e propria?
Sei anni fa. Derek Walcott doveva mettere in scena la sua versione teatrale dell’Odissea a Siracusa e mi ha chiesto se volevo tradurla. Era un testo che conoscevo benissimo, l’avevo anche già visto diverse volte assieme a lui, a New York. Abbiamo provato due volte ai Caraibi e un mese in Sicilia, lavoravamo non meno di dieci ore al giorno, le vacanze più belle della mia vita.

Quindi conoscevi Walcott prima di tradurlo?
Sì, c’eravamo conosciuti qualche anno prima a Milano, durante un seminario alla Statale. Dovevamo portargli delle nostre cose tradotte in inglese. Le mie gli sono piaciute – non so, forse qualcosa c’era, qualche verso –, così alla fine del seminario mi ha invitato a New York per seguire un suo corso alla NYU. Ho pensato, durerò al massimo due settimane ma vado comunque, e invece sono rimasto lì due anni. All’inizio era piuttosto scioccante, perché per me lui era la poesia in persona e io, anche se avevo già trent'anni, avevo appena iniziato a scrivere. Ma Derek è un uomo di una generosità e di un calore straordinari, così non c’è voluto molto perché si instaurasse un affetto profondo. I casi in cui maestro e allievo si scelgono a vicenda sono piuttosto rari ma in realtà dovrebbe essere sempre così.

A questo proposito quanto conta la simbiosi, magari anche solo immaginaria, con il poeta che si sta traducendo?
Tutta la scrittura è in gran parte mimesi e imitazione, non solo della realtà ma anche, o soprattutto, dell’arte che ci precede, quindi la capacità simbiotica è sempre essenziale. Chiaro, molto dipende da un’affinità elettiva. Edna St. Vincent Millay diceva che la traduzione è come una trasfusione di sangue, basta una goccia di quello sbagliato e l’autore è morto.

C'è un pudore con cui ti accosti al testo da tradurre? Se lo intendi nella sua accezione estesa di «rispetto», ovviamente sì. Sai che quando ho realizzato qual è il significato originario di «rispetto», per me è stata una rivelazione, perché rispettare significa «guardare di nuovo». Il rispetto, dunque, inizia con il secondo sguardo. È un atto fondamentale, perché solo così, con un secondo, terzo, quarto sguardo puoi vedere com’è davvero fatta una cosa. Poi smetti di osservarla e cerchi di vederla con l’occhio dell’immaginazione. Senza questo processo non esiste arte, né traduzione, perché anche la traduzione è una forma d’arte.
Per te tradurre è una scoperta piena di stupore o un fallimento?
Entrambe le cose, dato che ogni volta riscopro con stupore l’inevitabilità del fallimento. Ma questo non significa nulla, perché la scrittura, qualsiasi tipo di scrittura, è sempre un fallimento. Il miglior consiglio che uno scrittore possa ricevere l’ha dato Beckett: «Fail, fail again, fail better». Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio.
Cos’è indispensabile salvare della vita del testo?
Hai già risposto tu, nel modo in cui hai formulato la domanda, perché se parli della vita di un testo dici qualcosa d’importante, e cioè che un testo vive, e di conseguenza la cosa indispensabile è salvargli la vita.

Quali sono gli elementi che lo tengono in vita?
Bisogna vedere caso per caso. Davanti a ogni testo è necessario stabilire una gerarchia, vale a dire rendersi conto di cosa in quella poesia è vitale e cosa, se proprio non c’è modo, possiamo sacrificare. Per fare questo è necessario essere estremamente consapevoli dei princìpi compositivi che hanno dato vita al testo e rispettarli il più possibile. Dopodiché lo strumento più importante diventa la sensibilità individuale, perché una poesia non può essere ridotta alla somma delle sue parti, così come un essere umano non è la somma delle sue membra, degli organi, ecc. C’è un qualcosa in più di indefinibile: nell’uomo si chiama anima, in una poesia è la poesia – nel senso di ciò che è poetico, dell’inglese poetry – che, come l’anima, nessuno è mai riuscito a dire una volta per tutte cosa sia e dove sia. Una cosa però la sappiamo, e cioè che in un essere vivente anima e corpo sono indivisibili. E lo stesso vale per la poesia, non si può pensare di liberarsi completamente della forma senza danneggiare il contenuto, e vice versa. Ammesso che in poesia una tale distinzione sia possibile.

Quali ti sembrano gli aspetti più interessanti del lavoro di traduzione?
Be’, ce ne sono diversi, credo, ad esempio, la possibilità che ti offre di innestare nuovi ritmi nel tessuto prosodico della tua lingua, e quindi di estenderne i confini espressivi. Prendi Iosif Brodskij, il suo è un esempio straordinario di cosa si possa fare con la traduzione: la sua familiarità con la poesia inglese e americana, dalle quali da giovane aveva tradotto estensivamente, gli aveva permesso di rivitalizzare non solo la prosodia russa, ma anche – dopo l’esilio, quando viveva negli Stati Uniti e traduceva se stesso dal russo – quella inglese. L’esametro di Walcott, con tutte quelle uscite piane rimate, deve moltissimo alle autotraduzioni di Brodskij. Ci hanno guadagnato tutti, lui, la poesia russa e quella inglese, anche se sono in pochi a rendersene conto.

Se è vero, come dicevano i cinesi, che la poesia è «l’arte di danzare in catene», non trovi che per il traduttore le catene siano doppie?
Certo, e questo è un altro degli aspetti veramente interessanti della traduzione, roba da veri masochisti. No, davvero, è un aspetto importante, perché tradurre ti aiuta a sviluppare un certo rigore, non solo tecnico, ma anche immaginativo, e questo è fondamentale sia per la vita in generale sia per la tua scrittura, perché anche lì non puoi immaginare in modo sregolato, ma devi rimanere fedele all’oggetto, all’esperienza che hai avuto, alla sua essenza, che credo sia – attenzione, adesso arriva il proclama metafisico – di natura musicale.

Disciplina dell’immaginazione e fedeltà all’essenza musicale della parola: quali sono gli altri punti del tuo manifesto di poeta e traduttore di poesia?
Niente manifesti, i manifesti non mi sono mai piaciuti. Però questo non vuol dire che io non abbia le mie idee, anche piuttosto precise, su come dovrebbe essere una poesia, ma non sono niente di nuovo e spero si evincano facilmente da quello che scrivo. Quanto alla traduzione, lì mi limito ad applicare il precetto «fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te», che per me significa: rispetta il credo del poeta che traduci. O in altre parole, come si diceva, i suoi princìpi compositivi. Se questi sono troppo distanti dai miei, io non riesco nemmeno a mettermici, quindi evito. In questo senso è molto importante essere coscienti di quello che si sta facendo, perché i princìpi estetici hanno anche una forte valenza etica. Non rispettarli equivale a un vero e proprio tradimento.

C’è qualcosa che un traduttore letterario dovrebbe tenere sempre presente?
Sì, che la letteratura non aspira solo a narrare bene un evento, reale o immaginario, ma a diventare un evento. Negli altri tipi di scrittura questo non accade. Un articolo di giornale, per esempio, può essere scritto benissimo, offrire un modello di stile, ecc., ma la lingua, per quanto bene sia usata, resta al servizio di qualcos’altro: l’evento sta al di fuori della scrittura – è il fatto o l’idea – e la scrittura è il veicolo per comunicarlo. Se leggi un bell’articolo sull’isola di St. Lucia, quando hai finito ti viene voglia di andarci, di fare quell’esperienza; se leggi una poesia di Walcott su St. Lucia, quando hai finito ti viene voglia di rileggerla, perché la vera esperienza è contenuta nella poesia. Quindi una traduzione dovrebbe puntare a essere una costruzione verbale assemblata in modo tale da diventare un evento in sé, capace di incidersi e di incidere sulle nostre esistenze. Ovviamente, ammesso che anche l’originale lo sia.

Allora i libri servono a costruire mondi immaginari? Niente a che vedere con la realtà?
No, no, la letteratura, per come la intendo io, è lo strumento principale per cogliere la realtà. I mondi costruiti dai libri sono immaginari nel senso che scaturiscono dall’immaginazione, ma senza l’immaginazione non esisterebbe nemmeno il mondo in cui viviamo. La realtà è radicata nell’immaginazione.

Si parla spesso dell’impossibilità della traduzione, non ti pare che questo sia vero soprattutto per la poesia?
È vero per qualsiasi traduzione letteraria. Ma, grazie a Dio, a livello pratico la questione è irrilevante. La particolare difficoltà della poesia, comunque, dipende dal fatto che è costruita non a partire dalla frase, o dalla parola, ma dalla sillaba. Infatti una buona poesia, una grande poesia, tende a imporsi alla memoria lettera per lettera. Quindi anche la traduzione dovrebbe avere lo stesso impatto. Se si arriva ad aver voglia di imparare a memoria una poesia in traduzione, significa che il traduttore non solo ha fatto bene il suo lavoro, ma ha compiuto una sorta di miracolo. Capita di rado, come tutti i miracoli, ma capita.

Te ne viene in mente una? Il Villon di Rossetti, la Ballata delle dame di un tempo, nessuno è riuscito a renderla come lui, nemmeno Lowell.
Qual è la differenza maggiore tra prosa e poesia?
La poesia, di base, non è così diversa da un incantesimo, o dal testo di un rito propiziatorio o di una cerimonia sacra. Le sue origini sono quelle, e specialmente oggi che la poesia diventa sempre più simile alla prosa, non bisognerebbe dimenticarselo. Quindi diciamo che con la poesia, a differenza che con la prosa, ci si muove in un ambito magico/religioso, cioè un ambito nel quale la singola parola è chiamata a far accadere qualcosa – nel mondo interiore e in quello spirituale, ma non solo – o a far rivivere un’esperienza in tutta la sua potenza numinosa, a volte fino a cercare di diventare la cosa di cui parla. Che poi, in fin dei conti, è un altro aspetto riconducibile alla magia.
Ti va di farmi un esempio?
È difficile scegliere... Prendiamo Rilke, c’è una sua poesia che s’intitola Das Karussell, La giostra, e lì c’è un verso che magari così non ti dice niente, ma che in realtà è strepitoso: «Und dann und wann ein weisser Elefant». La traduzione sembra semplice e priva di problematiche, «E di tanto in tanto un elefante bianco», ma non è così, perché nel verso di Rilke c’è il ritmo della giostra e nell’italiano no. Questo verso Rilke lo ripete più volte, tra una strofa e l’altra. Nelle strofe ti dice quello che vede: un cavallo con su una bambina vestita di blu, una carrozza, un cervo, un leone, e poi arriva questo verso, che torna e ritorna. È meraviglioso, tutta la poesia gira in tondo, non parla della giostra ma è la giostra, che a sua volta è la vita. Ogni esistenza ha il suo elefante bianco che torna e ritorna. Si potrebbe parlare per ore di questa poesia, delle sottigliezze di senso... Comunque, questo verso l’ho sentito per la prima volta da Giorgio Orelli, lui dice che ogni volta che passa davanti a una giostra gli viene in mente e lo recita. Se lo scandisci, il metro è un pentametro giambico, vale a dire cinque piedi, ognuno composto da una sillaba non accentata e una accentata. Il penultimo accento cade sulla sillaba iniziale di «Elefant», ed è un accento metrico, non reale, quindi è più debole, e così hai un’accelerazione, e questo è incredibilmente accurato perché se guardi una giostra fissando uno degli animali, quando ti passa davanti sembra che acceleri. Non voglio dire che Rilke abbia pensato anche a questo, un poeta può arrivare a sviluppare un istinto straordinariamente acuto per la lingua. In un verso toccato dalla grazia c’è sempre qualcosa in più di quanto abbia voluto metterci l’autore. In definitiva, le intenzioni non sono sempre così importanti, ciò che importa davvero è quello che c’è nella poesia, e nell’italiano ci sono troppe sillabe, a partire dalla «e», che non puoi togliere, perché è fondamentale per la ripetizione; «di tanto in tanto» metricamente va bene, però qui non si tratta solo di ricalcare il ritmo giambico ma anche l’alternanza delle vocali «u» e «a», perché è la differenza di timbro tra queste che in tedesco imprime il moto al verso. Potresti usare «di quando in quando», già meglio. Se non sbaglio c’è una versione italiana che ha «e a quando a quando», che risolve il problema della «e» iniziale e elimina il salto dalla «i» alla «u», ma anche questo non è all’altezza dell’originale, non ha la stessa naturalezza. Sembrano piccole cose, e lo sono, ma se non riesci a renderle il verso si appiattisce. In poesia anche cose minuscole possono avere effetti enormi.
Come ci si comporta quando si deve tradurre una poesia da una lingua che ha un sistema metrico diverso dal nostro?
Anche i metri e i ritmi devono quasi sempre essere tradotti. Vale a dire adattati al genio della lingua d’arrivo. Ad esempio, non puoi pensare di tradurre tutto Shakespeare in pentametri giambici, scordatelo, è impossibile, e non avrebbe nemmeno senso perché, appunto, la metrica italiana è diversa. Allora pensi, scelgo l’endecasillabo, che in termini di naturalezza del respiro è l’equivalente del pentametro inglese. Giustissimo. Ma a parte che ti ritrovi quasi sempre con meno accenti, come fai a farci stare tutto nello stesso numero di versi? «When I do count the clock that tells the time / And see the brave day sunk in hideous night»: venti sillabe, diciannove parole, credo ci sia poco da aggiungere. Devi per forza trovare un’alternativa. La mia idea è che in italiano, proprio per la natura polisillabica della lingua e per la sua prosodia, le sillabe non accentate si sentono meno rispetto all’inglese; quindi potresti scegliere di avere lo stesso numero di accenti, cercare una somiglianza ritmica, e avere più sillabe. Ungaretti diceva, se non sbaglio, che un pentametro inglese, in italiano, oscilla tra le 13 e le 17 sillabe. Credo che i sonetti di Shakespeare li abbia tradotti così. Bisognerebbe controllare.

Fin dove può spingersi un traduttore per cogliere «l’anima del testo», quanto può tradire la lettera a favore dello spirito?
Di nuovo, è impossibile stabilire una regola, ogni poesia, ogni verso sono una cosa a sé. Riprendendo l’idea dell’incantesimo, potremmo dire che se dopo aver recitato la poesia originale piove, deve piovere anche dopo la traduzione. Nel teatro questa necessità è più evidente: se in un determinato momento c’è una battuta che commuove o fa ridere, devi ottenere lo stesso effetto anche con la traduzione. Nella poesia e nella prosa è più facile barare, o illudersi di poterlo fare, senza essere scoperti.

Ti chiederei di nuovo di farmi un esempio.
Ok... Forse non è il migliore, ed è anche un po’ imbarazzante perché riguarda me, ma è quello che mi viene in mente adesso, e si tratta comunque di un tradimento della lettera andato a buon fine. Nell’Odissea, quella di Walcott – e la mia traduzione, in generale, non è un granché, davvero, era la prima che facevo –, comunque, a un certo punto Nestore dice a Telemaco: «The shame I feel for Odysseus, because I’m home», letteralmente «Il disonore – o la vergogna, la colpa – che provo nei confronti di Odisseo, perché io sono a casa». Ora non mi ricordo come ho tradotto la prima parte del verso, ma la seconda l’ho cambiata moltissimo. Avevo bisogno di una rima in «enza», e a un certo punto è uscito: «la mia casa è un insulto alla sua assenza». Vedi, in teoria questo è sbagliatissimo, non solo metricamente, ma anche perché sostituisci un’affermazione semplice con una parafrasi complessa. Però, se vai a guardare il resto della scena, ti accorgi che Nestore parla così, usa immagini molto ricercate, infatti Telemaco non lo capisce. Quindi, quella soluzione è coerente col personaggio. Non l’ho inventata io, è lui che l’ha dettata. In più, e lo dico senza presunzione, davvero, potrebbe essere un verso di Walcott, nel senso che è nel suo stile. Dovendo scrivere in italiano e avendo l’imbeccata di quella rima, Walcott avrebbe potuto fare la stessa cosa. Dunque, in un certo senso è corretto, e poi a me piaceva, quindi l’ho tenuto. A ripensarci adesso, avrei persino dovuto togliere la prima parte del verso, sarebbe bastato questo. Comunque sia, durante le prove, arrivati a quel punto, ho chiesto a Derek cosa ne pensasse: prima ha fatto una scena, dicendo che c’è sempre un giovane poeta presuntuoso che crede di poter migliorare i versi che traduce, come faceva Lowell (qui ho capito che scherzava), poi ha aggiunto: «Be’, spero che nessuno guardi il lato sinistro della pagina, così penseranno che l’ho scritto io». Ammirevole. Lui, intendo.

Non sempre, però, si ha la possibilità di consultare l’autore. E, procedendo in questo modo, non c’è il rischio che l’ego del traduttore prenda il sopravvento sul testo?
Certo, bisogna essere sempre molto vigili. In questo caso un commento del genere ti rassicura e appaga il tuo ego di scrittore, sempre bisognoso di conferme, ma non è questo il punto, perché in realtà non è una vittoria dell’ego ma esattamente il contrario. Se non proprio una rinuncia al tuo ego, quantomeno una sua sottomissione alla cosa che imiti. Quando nelle Imitations Robert Lowell ha cambiato i versi di Rilke, di Saffo o di Montale, non lo ha fatto perché pensava di essere più bravo di loro, ma perché cercava di essere loro. Lasciava che le loro personalità lo abitassero e reagissero alla lingua inglese. Tornando all’esempio di prima, se un autore di teatro deve calarsi nei suoi personaggi, chi lo traduce deve calarsi nei personaggi e nell’autore. Mi rendo conto che non si può fondare una teoria della traduzione su questo, ma è davvero necessario farlo? Direi che si può tranquillamente farne a meno.
C’è un consiglio in particolare che vorresti dare a un aspirante traduttore di poesia?
Non sono molto bravo a dare consigli generici, ma visto che non mi va di sottrarmi, te ne do uno ancora più generico, che credo valga un po’ per tutto: dedicati a quello che ti piace veramente. Non è edonismo, è metafisica.