Egrette bianche
Adelphi 2015
Traduzione di Matteo Campagnoli
Egrette bianche, la quattordicesima raccolta di poesie di Derek Walcott, fonde elegia e rapsodia, sul ritmo di temi ricorrenti come l'eredità coloniale e lo spettro dell'impero, l'approssimarsi della morte e la scomparsa degli affetti, l'insofferenza per il turismo («una schiavitù senza catene, senza sangue sparso») e un amore per il viaggio vissuto nella consapevolezza – per citare Orazio – che «chi va per mare cambia cielo, non animo». Iosif Brodskij ha paragonato la poesia di Walcott alle onde di marea, a frangenti che montano, si ritirano e tornano a lambire la costa, mentre la magnificenza del suo linguaggio e la profusione di immagini evocano la lussureggiante natura delle Indie Occidentali. E il lettore non potrà che restare abbacinato a osservare «queste egrette / che incedono sul prato in truppe scomposte, bianche insegne / che arrancano derelitte; sono i rimpianti / scoloriti delle memorie di un vecchio, le loro strofe mai scritte. / Pagine che svolazzano come ali sul prato, segreti svelati».
Leggi una poesia su Specimen >
Isole
Adelphi 2009
A cura di Matteo Campagnoli
Un paio di decenni fa Iosif Brodskij ebbe a scrivere di Walcott: «Per quasi quarant’anni, senza sosta, i suoi versi pulsanti e inesorabili sono arrivati nella lingua inglese come onde di marea, coagulandosi in un arcipelago di poesie senza il quale la mappa della letteratura moderna assomiglierebbe, di fatto, a una carta da parati». Un arcipelago al quale, da allora, non hanno mai smesso di aggiungersi nuove isole, ma le cui coordinate sono rimaste immutate: dalle promesse giovanili di In una notte verde – imparare «a soffrire in giambici accurati», «lodare finché amore duri, i vivi e i morti bruni» – alle riflessioni sull’arte e sulla vecchiaia del Prodigo. Una dedizione alla poesia e una preoccupazione per la condizione umana nate dalla volontà di rimanere fedele a un’epifania precoce – magistralmente narrata nel poema autobiografico Un’altra vita – che, alla maniera di Dante, ha segnato e continua a segnare il corso di un’intera esistenza. Ripercorrere l’avventura letteraria di Walcott significa assistere al dispiegarsi di un dono poetico capace, come forse nessun altro ai nostri giorni, di coniugare il lampo lirico dell’istante «in cui ogni sfaccettatura» è «còlta in un cristallo di ambiguità» con il gesto aperto e impersonale dell’epica. Il risultato, sulla pagina, è un’opera di straordinaria versatilità formale, magnificenza linguistica e precisione metaforica, costantemente illuminata da una compassione ampia, come nei grandi poeti di ogni tempo.
Franco Buffoni: Davvero felici quegli incontri "poietici" (incontri di poiein) che durano una vita, arricchendo traduttore e tradotto e regalando al lettore visioni e linguaggi sempre rinnovantesi. È il caso – per citare due poeti che ci sono vicini – di Fabio Pusterla e Philippe Jaccottet. È il caso di Matteo Campagnoli con Derek Walcott. Qui la distanza di età tra i due poeti – il traduttore e il tradotto - è molto maggiore rispetto all'altra coppia citata, ma la devozione reciproca, l'amicizia, la stima ineguagliabile tra i due artifex sono le stesse. Nel recente volume adelphiano Matteo Campagnoli supera se stesso, rivedendo il lavoro già svolto aggiungendo preziose nuove versioni, creando in sostanza un macrotesto autonomo che – siamo certi – servirà da modello anche ai selected poems di Walcott in altre lingue. Grande apprezzamento, dunque, esprimiamo per questo Walcott adelphiano in preziosa ma accessibilissima (per il prezzo) edizione. E ben più delle nostre parole valgono i versi: «E a sera il coro dei moscerini, / E sopra di loro, le guglie / Che trafiggevano i fianchi di Dio / mentre Suo figlio tramontava, / e quello fu il Nuovo Testamento».
Fabio Pusterla: L’ampio volume di Walcott è il frutto di un lungo, attento lavoro, che il curatore e traduttore Matteo Campagnoli ha condotto attraverso gli anni, e che ora può offrirsi alla cultura italiana come un importante attraversamento antologico dell’opera di Walcott (lungo un arco cronologico assai vasto, che dal 1948 giunge al 2004), e un contributo significativo alla riflessione poetica contemporanea. I risultati raggiunti da Campagnoli sono eccezionali, sia per la bellezza e l’accuratezza della sua versione italiana, sia per il metodo utilizzato, che prevedeva tra l’altro la collaborazione con l’autore stesso. Se talvolta una traduzione può risultare altamente proficua per la cultura entro cui nasce e che l’accoglie, e rappresentare un’apertura di orizzonte destinata a cambiare la mappa dei cieli, si può ben credere che il lavoro di Campagnoli vada in questa direzione, e che il suo Walcott sia grazie a lui ben presente nella coscienza dei lettori italiani di poesia».
Leggi una poesia su Specimen >
La voce del crepuscolo
Adelphi 2013
A cura di Matteo Campagnoli
Traduzione di Marina Antonielli
C’è un’esultanza fortissima, una celebrazione della fortuna, quando uno scrittore è testimone degli albori di una cultura che si definisce da sé, ramo dopo ramo, foglia dopo foglia...» scrive Walcott parlando dei Caraibi, e di uomini e donne che «non leggono ma sono lì per essere letti, e se vengono letti nel modo giusto creano la propria letteratura». Non stupisce allora che egli consideri scrittori fratelli Saint-John Perse, Aimé Césaire e Patrick Chamoiseau. Ma il suo sguardo valica i confini dei Caraibi, per abbracciare un orizzonte ben più ampio: da Philip Larkin, che «ha inventato una musa, il cui nome era Mediocrità», a Ted Hughes, che con la sua poesia «ringhia come una bestia braccata», a Robert Frost, dalla «saggezza invernale», a Les Murray, che in virtù della sua «forza irsuta» sembra uscito da «una scena di Mad Max», a Iosif Brodskij, immerso nel «caos» della trasformazione che ogni poeta attraversa quando traduce se stesso. E a dispetto dell’eterogeneità degli oggetti su cui Walcott si sofferma, questa raccolta si fissa nella nostra mente come un’unica, folgorante immagine: merito, certamente, di una scrittura così intensa da rischiare a ogni riga di frammentarsi in lirica.
Nelle vene del mare
RCS 2012
A cura di Matteo Campagnoli
Nei Caraibi Walcott trova e rivela una Babele genetica, una sorta di ombelico del mondo tra Africa, Europa, Asia e America, che tuttavia ha per lingua quella dell'Impero: il suo vero strumento epico. Se modella i suoi versi sul ritmo dell'oceano - come diceva di fare Walt Whitman - come onde di marea, coagulandoli in un arcipelago di poesie, a differenza dell'americano, Walcott li contiene e trattiene in una prosodia e in una metrica formale. All'inizio parrebbe un poeta regionale, ma non lo è negli esiti, grazie al suo orecchio per la lingua, al suo vocabolario così personale nonostante il commercio con i grandi d'Europa, perfettamente consapevole dei modi e dei rischi del fare poesia, democratico ma mica tanto quando c'è di mezzo l'eccellenza.
– Dall'introduzione di Sergio Perosa
Moon-Child
American Academy in Rome, Roma 4 aprile 2011
Regia di Derek Walcott
Musiche di Ronald “Boo” Inkson
Traduzione Matteo Campagnoli
Con
Derek Walcott
Giovanna Bozzolo
Wendell Manwarren
Dean Atta
A cinquant’anni dalla prima rappresentazione, Derek Walcott torna su una delle sue pièce più famose, Ti-Jean e i suoi fratelli, e la ripensa totalmente, questa volta in versi: scrive nuove scene, inserisce canzoni, introduce un narratore. Ne scaturisce così una sorta di versione “da camera”, nella quale la fiaba del piccolo Jean e della sua sfida con il Diavolo acquisisce nuove sfumature. A emergere sono in particolare le preoccupazioni ecologiche, di fronte alla brama di affaristi e speculatori pronti come mai a espropriare le terre e a violare la natura di St. Lucia, l’isola natale del poeta.