I punti d’incontro di Tranströmer


da «La Regione Ticino», 10 dicembre 2011

«O Iubelo del core», scriveva Jacopone da Todi sette secoli fa, e qualcosa di simile a quel giubilo l’ho provato molto più di recente – il 6 ottobre scorso, a essere precisi –, quando in diretta su internet ho visto un signore calvo, che sicuramente prima era biondo, entrare in una sala gremita e annunciare che il Premio Nobel per la letteratura di quest’anno era stato assegnato al suo compatriota Tomas Tranströmer.

Poi sono arrivati i commenti, non tanto sul vincitore, del quale ci si affrettava a dire di non aver mai letto nulla (chiaro, altrimenti perché scriverci un articolo?), quanto sul senso e il valore del Nobel, cioè quasi tutta carta sprecata perché del Nobel in realtà non c’è molto da dire, se non che è un premio e che la sua giuria, come quella di qualsiasi altro premio, è libera di darlo a chi vuole. Se poi nell’immaginario collettivo assegnare un Nobel significa decretare l'immortalità di uno scrittore, allora bisognerebbe solo esserne felici e approfittarne, perché si tratta di un’equazione che, seppur errata, può servire ad attirare l’attenzione dei media su autori spesso ignoti al grande pubblico: ed è forse solo questo che, fatta salva la qualità della scrittura, dovrebbero tener presente i membri dell’Accademia di Svezia. Al resto ci penseranno i lettori, e soprattutto il tempo, l’unico critico letterario che, assieme alle lumache, possa discettare di eternità con una qualche competenza.

Amaro in bocca, dunque, per le occasioni sprecate che non torneranno facilmente, perché se già di per sé i poeti non fanno notizia (dopo il Nobel resta solo la dipartita), Tranströmer non sarà certo l’eccezione. Anche se in realtà il suo nome di tanto in tanto dovrebbe comparire sulle prime pagine dei giornali, così come capita alla scoperta di una nuova galassia o della cura per un virus particolarmente pertinace, perché ai fini della comprensione e del miglioramento della condizione umana le sue poesie sono imprese non meno importanti. Anzi, spesso lo sono di più.

Dei suoi testi Tranströmer ha scritto che sono «punti d’incontro». Punti d’incontro, mi sento di aggiungere, tra ciò che è visibile e tangibile e ciò che non lo è:

L’unica cosa che voglio dire
luccica irraggiungibile
come l’argenteria
al monte dei pegni.

Irraggiungibile ma additabile, al di là del vetro, con un verso stupefatto come il dito puntato di un bambino, e con la nostalgia di chi sa che quell'argenteria in fondo gli appartiene, e in più non ha ancora capito bene cos'ha avuto in cambio. E il lettore testimone dell'incontro ne esce sempre con la visione amplificata e un residuo di quel luccichio nella pupilla. Il tutto accade nella massima concentrazione. Le poesie di Tranströmer sono spesso costruite attorno a un'illuminazione centrale, come accade in Ungaretti: il lampo di una collisione da cui s'irradia tutto il resto. Lontani dalla pagina, i versi che la custodiscono tendono a riassorbire interamente le poesie, si dilatano nella memoria, acquisiscono la vastità di ciò che contengono. È un effetto collaterale della maestria con cui Tranströmer distilla l’esperienza e ce la restituisce in poche sillabe precise e minimali come i tratti di un calligrafo giapponese:

Sono trasportato nella mia ombra
come un violino
nella sua nera custodia.

Il suo strumento d’elezione è la metafora, il punto d’incontro per eccellenza, nel quale due realtà si sovrappongono: questo è anche quello, afferma la metafora, in barba al principio di non contraddizione, la base della logica. Il risultato è una scrittura insieme cristallina ed enigmatica che ci rivela i legami insospettati tra cose apparentemente distanti ed eterogenee, più spesso tramite accostamenti fulminei – «le falene si posano sui vetri: / minuscoli telegrammi dal mondo» –, ma a volte anche in modi più elaborati e prosastici, come in questi versi da La gondola triste, illuminati dal raggio obliquo del suo umorismo nordico:

Liszt ha appena composto alcuni accordi così pesanti
che andrebbero inviati all’Istituto di mineralogia di Padova per farli analizzare.
Meteoriti!

Tranströmer, che da giovane pensava di diventare un pianista (dopo l’ictus che lo ha colpito nel 1990, suona con la sola mano sinistra ma non con meno grazia), ha scritto diverse poesie sui compositori e sulla musica. Oggi, nel giorno in cui a ottant'anni andrà a ritirare la medaglia con l’effige di Alfred Nobel e un assegno più che considerevole, lo ringraziamo per tutto quello che ha scritto e gli auguriamo che gli archi di Schubert lo accompagnino ancora a lungo, continuando a parlargli come fanno nella sua Schubertiana:

C’è così tanto in cui dobbiamo aver fiducia per vivere il nostro giorno quotidiano senza affondare nella terra!
Aver fiducia nel cumulo di neve aggrappato al fianco della montagna sopra il villaggio.
Aver fiducia nella promessa silenziosa, nel sorriso complice, aver fiducia che il telegramma dell’incidente non ci riguardi, che l’improvviso colpo d’ascia interiore non arrivi.
Aver fiducia nell’assale che ci trasporta lungo l’autostrada nel mezzo dell’alveare d’acciaio trecento volte ingrandito.
Ma nulla di questo è veramente degno della nostra fiducia.
I cinque strumenti a corde ci dicono che possiamo aver fiducia in qualcos’altro, e ci accompagnano per una parte del cammino.
Come quando l’interruttore a tempo si spegne sulle scale e le dita – fiduciose – seguono il corrimano che trova la sua strada nel buio.



© Matteo Campagnoli 2011