Una donnina minuta seduta in punta alla sua seggiola


da «La Regione Ticino», 2 febbraio 2012. Raccolto in La vita a volte è sopportabile. Ritratto ironico di Wisława Szymborska, Casagrande 2013


Wisława Szymborska, tra i più grandi poeti del Novecento, è morta mercoledì sera, a ottantotto anni, nella sua casa di Cracovia. La morte di un poeta è un evento difficile da assimilare: torniamo ai suoi versi e li ritroviamo pieni di vita, ma iniziamo anche a vederli sotto un’altra luce: non ce ne saranno altri. Fino a una quindicina d’anni fa, quelli di Szymborska erano per lo più sconosciuti al di fuori della Polonia, poi, nel 1996, è arrivato il Premio Nobel ed è stato un profluvio di traduzioni e copie vendute in tutto il mondo, probabilmente più di qualsiasi altro poeta contemporaneo.

L’apparente semplicità delle sue liriche e la gioia della scrittura che contengono sanno conquistare da subito anche il lettore che si avvicina per la prima volta alla poesia. I suoi versi chiariscono la vita e ci fanno sentire che vale la pena di viverla, persino in tutto il suo dolore. Ma lo fanno senza compromessi, senza edulcorare: la loro sincerità è insieme confortante e allarmante, le loro risposte sono altrettante domande. Come leggiamo in Un appunto, l’esistenza resta «il solo modo / per coprirsi di foglie, / prendere fiato sulla sabbia / (...) distinguere il dolore / da tutto ciò che dolore non è / (...) inciampare in una pietra. / bagnarsi in qualche pioggia / (...) e persistere nel non sapere / qualcosa di importante». Il non sapere di Szymborska – condensato in quel disarmante «non so» che fa da pietra angolare al suo discorso di Stoccolma – non è l’espressione di una resa, ma una formula magica che può scongiurare innumerevoli mali, un minuscolo talismano di umiltà da portarci sempre appresso e sfregare nella tasca ogni volta che crediamo di sapere come vanno o dovrebbero andare le cose.

In Una fotografia dell’11 settembre, dedicata agli uomini e alle donne che si sono gettati dalle Torri gemelle in fiamme, Szymborska ha scritto: «Solo due cose posso fare per loro – / descrivere quel volo / e non aggiungere l’ultima frase». Rendere testimonianza e opporsi, caparbiamente e contro ogni evidenza, al destino di annichilimento che il lungo o breve volo dell’esistenza sembra riservarci, è uno dei compiti che Wisława Szymborska si era data e che ha assolto fino all’ultimo. La descrizione lucida del mondo nelle sue pieghe e sfaccettature, l’attenzione partecipe ai dettagli («Tutto – / parola sfrontata e piena di boria»), la capacità di scorgere gli ingranaggi nascosti, di vedere dentro e dietro gli eventi, la saggezza e l’arguzia, la grazia e l’ironia: questo era Wisława Szymborska, e non smetterà di esserlo, perché le poesie che ci ha lasciato, come gli orologi a pendolo e gli specchi di Qualche parola sull’anima, non solo «continuano a lavorare con zelo / anche quando nessuno li guarda» ma anche dopo che il loro fabbricatore se n’è andato. Sono artefatti che scandiscono il tempo, lo riorganizzano a misura umana e ci restituiscono immagini del mondo e di noi stessi che ci aiutano a conoscerlo e a conoscerci.

Non ho mai avuto la fortuna di conoscere personalmente Wisława Szymborska ma alcuni anni fa sono andato a sentirla leggere a Torino: una donnina minuta seduta in punta alla sua seggiola, la voce sottile ma estremamente vivace. Mentre Pietro Marchesani leggeva una sua traduzione, così giusta nel rendere i suoni dell’originale, Szymborska non riusciva a trattenere l’entusiasmo e, sebbene il suo microfono fosse aperto e tutti la sentissero, continuava a emettere suoni di stupore e approvazione. Era incontenibile e contagiosa. Ora che la sua vita è contenuta fra due parentesi e «noi, i longevi, (...) oltrepassiamo furtivi» il piccolo cimitero «come i ricchi oltrepassano i quartieri dei poveri», nonostante la perdita di una donna così straordinaria, siamo davvero più ricchi, perché le piccole lapidi che scorgiamo sono i dorsi dei suoi libri allineati sullo scaffale.

© Matteo Campagnoli 2012