Una luce per la notte: Ernest Hemingway


da «La Regione Ticino», 1 luglio 2011


«Sul finire dell’estate di quell’anno vivevamo in una casa in un villaggio che di là dal fiume e dalla pianura si affacciava sulle montagne. Nel letto del fiume c’erano ciottoli e massi, asciutti e bianchi sotto il sole, e l’acqua era limpida e rapida e azzurra nei canali». È l’attacco di Addio alle armi, il secondo romanzo di Hemingway, che l’estate scorsa ho riletto a Rivapiana di Minusio in riva al Lago Maggiore e lungo le sponde della Maggia, dove ovunque mi voltassi trovavo la conferma dell’accuratezza di una prosa che è come acqua limpida e azzurra che scorre sopra i ciottoli; un’accuratezza del dettaglio ma anche del clima atmosferico ed emozionale, come quando Frederic Henry e Catherine varcano il confine tra Italia e Svizzera su una barca a remi, di notte, sotto una pioggerella di fine novembre che mi faceva già rimpiangere il passaggio di un’altra estate in verità solo all’inizio. Perché era questo che ritrovavo a distanza di anni, una malinconia diffusa come la pioggia che cade quasi senza sosta in questo romanzo a tratti insostenibile, tanto riesce a farti sentire da vicino l’azione erosiva dell’esistenza sulla nostra possibile purezza.

L’innocenza si perde, e questo già fa male. I nostri tentativi di recuperarla possono essere ancora più dolorosi, perché inevitabilmente destinati al fallimento, ma se vogliamo vivere come veri esseri umani non abbiamo scelta, e quel poco o tanto che riusciamo a riconquistare diventa doppiamente prezioso: non più ingenuità ma compassione. La prosa di Hemingway è così incisiva e pregnante proprio perché vive, sul piano ritmico e sintattico, questo costante tentativo di riscatto. Il suo codice di coscienza e la sua prassi di lavoro erano un tutt’uno, insieme cavallereschi e monacali, retti da un’identica disciplina che elevava la scrittura a rituale, in un passaggio continuo di stesura in stesura tra matita penna e macchina per scrivere, finché la finzione non raggiungeva l’autorevolezza della vita, finché le frasi non vibravano al di là dell’accuratezza per mutarsi in benedizione. È tutto questo che da giovane poeta ammiravo nel prosatore (in realtà un grande poeta che scriveva in prosa) e che rimarrà per sempre una pietra di paragone su cui testare il falso oro della propria scrittura. Per quanto possa contare, questo è il mio Hemingway, il maestro di uno stile inseparabile dalla condotta, consapevole della necessità della grazia, in ogni frase e in ogni gesto.

C’è però un altro Hemingway, che è poi quello più conosciuto e idolatrato, o detestato, il personaggio pubblico, l’immagine distorta di una mitologia nata negli anni del successo, la leggenda del duro che percorre il mondo di avventura in avventura col bicchiere sempre in mano. Un mito che Hemingway stesso aveva in qualche modo alimentato e soprattutto del quale fu vittima, perché la verità è che nel periodo della fama la sua prosa, al pari della persona, aveva messo su peso, l’accuratezza rimpiazzata da un troppo facile automatismo, la plasticità del ritmo e della sintassi intaccate dagli eccessi di una vita costantemente a rischio di perdere il controllo, cosicché, come ha scritto Derek Walcott, la cirrosi della menzogna aveva cominciato a insinuarsi nella scrittura.

Eppure Hemingway era sempre un passo avanti rispetto ai suoi critici, perché era perfettamente cosciente di tutto ciò che gli accadeva, e perché la durezza con cui trattava se stesso, ad esempio nelle Nevi del Kilimanjaro, non ha paragoni. La vita e la scrittura non sono però la stessa cosa e la redenzione raggiunta sulla pagina raramente corrisponde alla redenzione della vita. La biografia devastata degli ultimi anni è nota o facilmente reperibile – gli incidenti e le menomazioni che hanno lasciato, l’alcolismo sempre più acuto, il disfacimento degli affetti, la paranoia e la depressione – ma nonostante tutto la fede nel valore di un lavoro ben fatto non è mai venuta meno. In uno dei Quarantanove racconti, «Un posto pulito e ben illuminato», troviamo condensate le due polarità dell’intera parabola di Hemingway, come uomo e come scrittore:

«Siamo di due specie diverse» disse il cameriere più vecchio. Adesso era vestito per andare a casa. «Non si tratta solo di essere giovani e aver fiducia in se stessi, anche se queste sono belle cose. Ogni notte non voglio chiudere perché qualcuno potrebbe aver bisogno di entrare in un bar».

«Hombre, le bodegas stanno aperte tutta notte».

«Non capisci. Questo bar è pulito e piacevole. È ben illuminato. La luce è molto buona e adesso ci sono anche le ombre delle foglie».

«Buonanotte» disse il cameriere più giovane.

«Buonanotte» disse l’altro. Spenta la luce continuò la conversazione tra sé e sé. Certo che è la luce ma il posto deve anche essere pulito e piacevole. Non dev’esserci la musica. Chiaro, non dev’esserci la musica. Né puoi startene in piedi con dignità in una bettola qualsiasi anche se è l’unica cosa che trovi aperta a quest’ora. Di cosa aveva paura? Non era né paura né spavento. Era tutto un niente e anche un uomo era un niente. Era solo quello e la luce era tutto ciò di cui avevi bisogno e di una certa pulizia e un po’ di ordine. Alcuni ci vivevano dentro senza mai sentirlo ma lui sapeva che tutto era nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nei nada, sia nada il tuo nome nada il tuo regno sia nada la tua volontà così in nada come in nada. Dacci nada il nostro nada quotidiano e nada a noi i nostri nada come noi li nadiamo ai nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada; pues nada. Ave niente piena di niente, il niente è con te.

Quello che Hemingway ha costruito nei suoi romanzi e racconti – lottando contro il nada, il nulla esistenziale di cui tutti gli antagonisti dei suoi romanzi sono fantasmi e incarnazioni –, quello che ha costruito e ci ha lasciato, è un posto pulito e ben illuminato, aperto a qualsiasi ora, una luce per la notte, come voleva il vecchio cameriere. In sostanza, ha fatto ciò che riesce a pochi scrittori: ha perfezionato la vita. Quella vita a cui cinquant’anni fa ha posto fine e che aveva amato a tal punto da chiedere alla propria arte di far sì che tutto tornasse vero un’altra volta, di non accontentarsi di niente di meno, come nell’ultimo capitolo di Morte nel pomeriggio, straziante e misurato quanto solo la grande poesia riesce a esserlo; lui, che in così tante pagine ci ha regalato l’illusione, o la certezza, che questo sia davvero possibile.

© Matteo Campagnoli 2011