La resistenza letteraria


da «Il Sole 24 Ore», 31 agosto 2014


Trinidad non è la tipica isola dei Caraibi, perlomeno per come ci vengono venduti. L’intera costa ovest abbraccia il Golfo di Paria che è intorbidito dalle acque del grande fiume venezuelano Orinoco. Le spiagge del nord, seppur sfrangiate di palme, non hanno il lustro da cartolina di quelle di Tobago, l’altra metà della Repubblica. La natura è però prorompente, in particolare sulle alture del Northern Range, la catena montuosa che domina la parte settentrionale dell’isola. Nelle distese della Pianura Centrale si coltiva ancora la canna da zucchero, l’«oro bianco» che ha popolato l’isola di neri africani e poi, una volta abolita la schiavitù, di indiani dell’India, importati in massa dagli inglesi come indentured labourers, braccianti a contratto costretti a servire da cinque a sette anni nelle piantagioni per ripagare un viaggio in nave dal quale non tutti sbarcavano vivi. La ricchezza dell’isola oggi arriva ancora dalla terra, non cresce ma sgorga, ed è il petrolio.
A Trinidad si sta soprattutto a Port of Spain, la capitale. Il calypso è stato soppiantato dalla soca, le steelband, nate dalle gang di quartiere, sono ora sponsorizzate da banche e compagnie aeree, ma il carnevale, benché sia ormai in gran parte una faccenda di piume e lustrini alla brasiliana, è rimasto a buon titolo il più importante dei Caraibi. La violenza, un tempo mera rivalità locale, si è inasprita per via del commercio di droga e armi, e fa quasi due morti al giorno. In un quartiere come Laventille, sulla collina sopra Port of Spain, non ci entra più nessuno; eppure a girarla a piedi, anche se ti dicono di non farlo, la città sembra tranquilla. Lo è certamente a Cascade, dove abita Earl Lovelace, che assieme a V.S. Naipaul è il più importante scrittore vivente di Trinidad, ma che a differenza di Naipaul ha sempre vissuto qui in mezzo alla sua gente.

Lo incontro a casa sua, su una terrazza arredata con divani e poltrone spartani. Non sono qui per intervistarlo, solo per conoscerlo in vista del festival Babel a cui lo abbiamo invitato, ma il discorso vira presto e inevitabilmente sulla letteratura. Lovelace è considerato da molti un maestro del vernacolo; pochi scrittori sanno maneggiarlo con altrettanta efficacia e precisione, in tutte le sue sfumature. In particolare quella continua commistione di creolo e inglese standard tipica di molte isole dei Caraibi. L’uso del vernacolo, mi dice, non è solo riproduzione di come parla la gente, un modo per rendere giustizia alla loro realtà, è anche un’arma contro la retorica del potere perché contiene la saggezza di un popolo, la sua visione del mondo; contiene i bisogni, le aspettative delle persone; in definitiva, la loro umanità irriducibile. Se si riesce a esprimerli in letteratura li si rende importanti, si dà loro un posto nel novero della sensibilità umana. Gli dico che a mio avviso la questione della doppia lingua, che qui è così prominente, in ultima analisi riguarda ogni scrittore: la lingua non è mai una sola anche dove non si parlano dialetti o varianti di sorta e c’è sempre un equilibrio da trovare tra l’espressione letteraria (chiamiamola così) e la voce individuale, la declinazione personale del vernacolo, altrimenti la parola sulla pagina resta lettera morta. Lovelace annuisce: è sempre una questione di tono. Aggiunge che l’inglese di Trinidad è spesso associato alla comicità, però come tutti i vernacoli contiene non solo la saggezza ma anche la spiritualità della gente. Per farmi un esempio, recita a memoria il primo paragrafo del suo The Wine of Astonishment: «God don’t give you more than you can bear, I say. ’Cause for hundreds of years we bearing what He send like the earth bear the hot sun…»; un esempio perfetto, quindi intraducibile.

È una considerazione importante la sua, perché qualsiasi creolo, come qualsiasi dialetto, è un’arma a doppio taglio: la schiettezza e l’irriverenza congenite con cui può mettere in ridicolo il potere e la sua retorica si rivolgono facilmente anche contro ogni aspirazione che sia avvertita come al di sopra della lingua, dell’ambiente sociale in cui è parlata, facendola diventare, di riflesso, un modo di mettersi nel ghetto da soli, come accade con gli slang o i gerghi. E in più per uno scrittore è facile fermarsi all’umorismo. Più difficile è cogliere l’elemento rivelatore. Lovelace sa essere esilarante, ma dietro, appunto, c’è sempre dell’altro.

Più andiamo avanti a parlare più è chiaro che per lui l’idea della letteratura come forma di resistenza è centrale. Ne ha scritto nei saggi, la troviamo declinata nei romanzi. I suoi eroi, o anti-eroi, rappresentano sempre un’alternativa alla società, un modo altro di stare al mondo. È così persino per i nullafacenti. Quella che agli occhi di Naipaul è un’indolenza contagiosa che avvelena il sangue, per Lovelace ha un valore in quanto incarnazione di un rifiuto: in sostanza, meglio non far nulla che fare quello che ti viene imposto. Si tratta di una forma di opposizione che arriva dai tempi della schiavitù, quando le alternative al sistema della piantagione erano due: scappare o boicottare. In entrambi i casi le punizioni erano tremende, ma il boicottaggio, diversamente dalla fuga, poteva essere dissimulato, attuato con astuzia, in modo obliquo, e prendere la forma della negligenza, dell’indolenza. Per certi versi non è cambiato nulla, il colonialismo di oggi è economico, il modello è il consumismo di stampo americano, un’altra forza disumanizzante, subdola perché pervasiva e ormai inodore, che come la schiavitù non puoi combattere apertamente.

La resistenza di cui parla Lovelace è prima di tutto un’attitudine dello spirito. Restare umani, o meglio diventarlo, espandere i confini di quello che significa essere umani. La letteratura entra in gioco qui, per dare forma alla rivolta interiore e inventare un’altra vita a partire dalla visione di quello che c’è, grazie all’immaginazione, che non serve a costruire mondi fantasiosi, come comunemente si crede, ma a vedere ciò che non è visibile, sia che esista di già o che sia solo in potenza. Lovelace è uno dei pochissimi scrittori di caratura internazionale a non essere emigrato e crede fermamente che sia proprio questo – per la sua commistione di razze dislocate dalla terra d’origine, per i traumi della sua storia – il posto da cui cominciare a trasformare il Nuovo Mondo in un mondo nuovo.

Un’altra sua preoccupazione è il destino dei libri e come preservare uno spazio per una letteratura non standardizzata. Vuole sapere del libro di viaggio che sto scrivendo sui Caraibi. Quando gli dico che ho la libertà di scrivere su quello che voglio e gli racconto su cosa erano gli altri libri – un viaggio lungo una linea ferroviaria morta in Etiopia, i luoghi degli oracoli in Grecia – è impressionato dal coraggio editoriale del progetto. Ci troviamo d’accordo sulla responsabilità non indifferente di chi media tra scrittore e lettore. Lettore, e non pubblico, perché il pubblico è un’astrazione alla quale si può attribuire tutto e il contrario di tutto, a seconda degli interessi. Quanto allo scrittore, e anche su questo ci troviamo in accordo, deve sempre cercare di scrivere per il miglior lettore immaginabile.

Le candele sul tavolo si sono ormai consumate e mi rendo conto che già da un po’ stiamo parlando nella penombra, illuminati soltanto dalla luce che arriva dalla cucina. È ora di andare. C’è una frase che a un certo punto ha iniziato a girarmi in testa mentre osservavo e ascoltavo Lovelace, seduto qui nel suo salotto in veranda: appariva in corsivo in fondo alla prefazione o ai ringraziamenti di un libro, non ricordo più quale, isolata e senza alcuna relazione diretta con quello che veniva prima: This is a spiritual world, you have to know how to move. «Il nostro è un mondo spirituale, devi sapere come muoverti». Lovelace indubbiamente sa come muoversi.